La nascita e la successiva introduzione dell’industria alimentare nella nostra quotidianità porta con sé una grande storia, molteplici trasformazioni e conflitti sociali. In riferimento al ruolo delle donne, per esempio, quanto effettivamente l’industria alimentare ha influenzato il cambiamento della loro posizione sociale nel corso della storia?
Il ruolo dell’industria alimentare in Italia
In Italia, l’industria alimentare ha a lungo occupato una posizione secondaria se non marginale rispetto al corso principale dello sviluppo economico del paese. Il processo di sviluppo del settore alimentare può essere diviso a grandi linee in tre fasi: i decenni post-unitari caratterizzati da grande arretratezza; quelli che vanno dalla svolta industriale degli anni ottanta fino alla seconda guerra mondiale; e il boom economico del secondo dopoguerra.
Analizzando l’ultimo infatti, è proprio dal secondo dopoguerra, alla fine del XIX secolo, che si assiste alla razionalizzazione dei lavori domestici, seguita dal mutamento sociale e occupazionale. Quando le donne lasciarono il contesto domestico per lavorare, sorse un problema: chi avrebbe fatto i lavori domestici? In che misura era “corretto” aspettarsi che le donne, da quel momento occupate fuori casa, continuassero a prendersi cura dei figli, a fare le pulizie e a mettere i pasti in tavola? Evitando le discussioni su chi dovesse preparare da mangiare o su come quel lavoro potesse essere equamente suddiviso, l’industria alimentare si intromise con un’offerta che si dimostrò irresistibile per tutti: perché non lasciate che cuciniamo noi al vostro posto?
Il ruolo dell’industria alimentare in America
In realtà, molto tempo prima che un gran numero di donne facesse il suo ingresso nella forza lavoro, l’industria alimentare d’oltre oceano stava già cercando di ottenere un ruolo importante nel contesto domestico. Infatti, nell’America del secondo dopo guerra, l’industria alimentare si impegnò molto per far accettare agli americani, ed in particolare alle donne, le soluzioni che aveva inventato per nutrire le truppe militari: pasti in scatola, cibi liofilizzati, patate disidratate, succo d’arancia e caffè in polvere, tutto istantaneo e super pratico.
Laura Shapiro, nella sua storia sociale Something from the Oven: Reinventing Dinner in 1950’s America, dimostrò che il passaggio verso la cucina industriale non ebbe inizio per soddisfare una domanda da parte delle donne che entravano nella forza lavoro o delle femministe desiderose di sfuggire all’ingrata routine quotidiana della cucina. Il passaggio verso la cucina industriale fu invece in massima parte un fenomeno innescato dal mutamento dell’offerta.
La trasformazione del cibo è un’attività estremamente remunerativa, molto più di quanto lo siano la produzione e la vendita di alimenti non trasformati.
Perciò, l’industria alimentare cominciò ad entrare nelle cucine molto tempo prima che le donne cominciassero a uscirne, industrializzando così il nostro modo di mangiare e favorendo il cambiamento del ruolo sociale delle donne.
Strategie di marketing per la donna
Si può dire, però, che il successivo marketing dell’industria alimentare abbia allineato i suoi prodotti e i suoi interessi al movimento crescente del femminismo. Per esempio, negli anni Settanta in America, la Kentucky Fried Chicken (KFC) fu tra i primi produttori di cibi pronti a promettere la «liberazione della donna» dalla cucina diffondendo cartelloni pubblicitari raffiguranti un contenitore di pollo fritto formato famiglia con lo slogan «Salvezza per le mogli».
L’industria era molto lieta di indossare i panni da ideologista femminista se questo poteva aiutarla a introdursi nelle cucine. Eppure, proprio sotto la superficie del femminismo nell’industria alimentare, serpeggiavano i primi conflitti e un implicito messaggio antifemminista. Allora come oggi, le pubblicità dei cibi confezionati miravano quasi esclusivamente alle donne: rinforzavano, infatti, l’idea retrograda che la responsabilità di nutrire la famiglia toccasse unicamente alla donna. Inoltre, contribuivano a costruire un senso di panico legato alla questione del tempo, mostrando famiglie frettolose e così sotto pressione da non avere il tempo di preparare i pasti: i nuovi prodotti avevano l’obiettivo di aiutarla a fare un lavoro che comunque era suo e suo soltanto.
Le conseguenze delle trasformazioni alimentari
Pur essendo il cibo un mezzo di comunicazione importantissimo per interagire con gli altri e mantenere viva l’impronta storica dei popoli, le pratiche alimentari cambiarono di conseguenza, così come continuano a farlo ancora oggi.
Infatti, con la rivoluzione e incremento dell’industria alimentare questi nuovi prodotti sono diventati standard nella presentazione e nel sapore e non forniscono più alcuna sorpresa o emozioni: non fanno che nutrire il corpo e non richiedono alcuno sforzo, non sollecitano più alcuna risorsa dell’immaginazione e della cultura.
Se da un lato viene assicurato il successo economico delle industrie alimentari, dall’altro, il fenomeno della omogeneizzazione o globalizzazione dei gusti e delle pratiche alimentari ha portato alla destrutturazione dei pasti. Fenomeno dettato anche dall’incremento di una vita frenetica che ha generato un radicale mutamento delle occasioni di consumo e, quindi, ha contribuito a sradicare vecchie abitudini alimentari. La conseguenza è stata l’impoverimento di gusto dei prodotti stessi e il declino della cucina domestica come elemento culturale.
I benefici per le donne e globalizzazione alimentare
È giusto precisare, però, che non tutte le conseguenze sono negative.
Rinunciare a gran parte del lavoro di cucina ed affidarsi all’industria ha garantito maggiori diritti alle donne, permettendo loro di lavorare fuori casa e di far carriera, sollevandole dall’obbligo di nutrire la famiglia, che per tradizione e regole sociali ricadeva esclusivamente su di loro. Nel contesto familiare, ha alleviato ogni genere di altre pressioni: per esempio nelle giornate lavorative più lunghe per gli adulti e sovraccariche di impegni per i bambini, ha permesso di risparmiare tempo da poter investire in altre attività. Ha inoltre permesso di diversificare in modo sostanziale la nostra dieta: la “globalizzazione” delle abitudini alimentari e dell’apertura dei mercati ha consentito di sperimentare una cuisine completamente diversa ogni giorno della settimana, anche a chi non sa cucinare e ha poco denaro. Non sono vantaggi da poco.
Tuttavia, nel corso degli ultimi decenni la distinzione tra i modi di cucinare e consumare cibi è diventata sempre più confusa, e stiamo cominciando a quantificare e comprendere soltanto adesso le conseguenze. La preparazione industriale del cibo ha imposto una sostanziosa contropartita in termini di salute e benessere. Le grandi aziende cucinano in modo molto diverso dalle persone, ed è per questo motivo che di solito ci riferiamo alla loro attività chiamandola «trasformazione» o «lavorazione degli alimenti» e non «cucina»: è risaputo, ormai, che l’industria tende ad usare molto più zuccheri, più grassi e più sale di quanto facciano i singoli individui nel contesto domestico quotidiano, così come, per far durare il loro cibo più a lungo e farlo sembrare più fresco di quanto sia, usano ingredienti chimici nuovi, che difficilmente si trovano nella dispensa domestica.
Bibliografia
- Mancaniello M., Food Design La cultura del progetto in tavola, 2018
- Pollan M., Cotto, Storia na- turale della trasformazione, trad. di Blum I. C., Adelphi Edizioni, 2014
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